Tra silenzio e parola: divagazioni sul tema

“Sotto la lente” da prospettive diverse

Una giovane donna che seguivo molti anni fa, mi racconta un giorno, tra le lacrime, ciò che accadeva sempre quando lei era bambina e adolescente: il padre quando si arrabbiava con la madre, le teneva “il muso” per settimane, non le diceva una parola e, in generale, taceva un po’ con tutti, per giorni, che sembravano non finire mai. Un silenzio punitivo e terribile, forse potremmo dire un silenzio con molto rumore dentro!
 
Mi ha sorpreso quest’estate, un altro tipo di silenzio, in una mattinata di calma piatta, molto lontana dalla riva: una quiete irreale e, al contempo, quasi un timore che tutto potesse accadere da un momento all’altro. Un silenzio, dunque, che non nega l’altro, come quando diciamo “stai zitto!” (o “sto zitto!”, come nel nostro esempio iniziale), ma afferma se stesso. Potremmo definirlo, allora, una presenza: se resistiamo alla tentazione di fuggire, per tornare ai nostri rassicuranti rumori, questa presenza porta in sé la potenzialità di aprirci all’infinito, se diamo retta a Leopardi (al di là dei sovrumani silenzi, vi è un’immensità in cui è dolce naufragare).
 
Scrivere in merito al silenzio già di per sé è un’operazione complicata: non solo perché mentre ne parlo, lo distruggo, ma perché è molto difficile entrarvi in contatto (anche ora mentre scrivo, la lavatrice ha richiamato la mia attenzione con un suono insistente ed il telefono, ovviamente, ha fatto la sua parte). Non è dunque un caso, se è la poesia a venirmi in aiuto, arte capace di tenere insieme pieni e vuoti, grazie al verso.
 
“Il silenzio non è tacere né mettere a tacere, è un invito, è stare in compagnia di qualcosa di tenero e avvolgente, dove tutto è già stato detto. Il silenzio sorride. / Caro silenzio, aiutami a non parlare di te, aiutami ad abitarti. Addestrami. Disarmami. Tu mi insegni a parlare”. (Chandra Livia Candiani)
 
La dimensione del silenzio mi è molto cara, da sempre: quando non è pieno di rumore è in grado di rimetterci in contatto con noi stessi, primo atto fondamentale per ritornare in contatto con il mondo fuori, necessario, quindi, per relazioni e legami.
Tu mi insegni a parlare dice, infatti, la Candiani e lo definisce magnificamente, poco oltre: “arte del congedo per ritrovare”. Dunque, dopo il silenzio, a te la parola, Massimo.

Alcesti Alliata

Amica cara, io raccolgo l’invito anche se da sempre la parola, e potremmo proprio partire da qui, sembra ingombrante, come quei cibi certamente buoni ma che a lungo andare rischiano di diventare eccessivi, di saturare, in un eccesso di spiegazione, che paradossalmente lascia senza parole. Dunque parola come ingrediente fondamentale per il pensiero, parola che rende possibile il pensiero, parola che rende chiaro il tutto.
 
Il rapporto con un siffatto elemento non può che essere conflittuale a mio modo di vedere, ne abbiamo bisogno ma se ne facciamo un uso eccessivo perdiamo fantasia, come quando vai a vedere un film e sai già che è l’assassino, ci troviamo sicuramente meno in ansia ma con il scemare dell’inquietudine perdiamo spinta, scintilla, emozione.
 
Per questo il filosofo Martin Heidegger dopo averci spiegato che “il linguaggio è la dimora dell’Essere” ci dice anche che i suoi custodi sono i poeti ed i filosofi: ciò che può proteggere il pensiero, ciò che gli può dare spinta sono persone che, per motivi forse diversi, riescono da un lato a giocare (come tu hai descritto, mischiandole al silenzio) dall’altro a esplorarle, stressarle, financo a stuprarle, come avviene con le parole della filosofia.
 
Un altro autore a me molto caro, anch’egli heideggeriano, Byung Chul Han, nella sua “Crisi della narrazione”, a mio dire sembra inquadrare un aspetto della parola che mi va di denunciare perché lo ritengo di grande attualità. Il filosofo berlinese, di chiare origini coreane, sostiene ed io nel mio piccolo con lui, che la narrazione in epoca attuale sia in forte crisi perché continuamente insidiata e per certi versi quasi totalmente sostituita dall’informazione.
 
Quale differenza? Direi sostanziale, in quanto nella narrazione viene lasciato uno spazio al lettore di completare la situazione, di farsi una sua idea, di posizionarsi e quindi produrre pensiero. A parità di narrazione, dunque, possiamo avere diverse linee di narrativa, possiamo entrare in tanti modi nella storia e farcene una nostra. Se però veniamo presi sempre di più dalla notizia, se ciò che conta è la precisione delle cose che vengono descritte, allora passiamo dalla narrazione all’informazione e allora al lettura non resta che bersi una bevanda prepreparata, e forse anche predigerita.
 
A me sembra importante che ciascuno cerchi di non farsi sedurre dalla sola informazione (che poi non può che essere di parte) per lasciarsi contaminare dalla narrazione partecipando per quel che può, contribuendo non solo con la notizia ma lasciando spazio a ciò che vive, ciò che sente.
In questo possiamo dire che la parola non solo è viva ma diviene vita.
 

Massimo Buratti

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